Tenterò, in poche battute, di fare un quadro a grandi linee sulla minaccia della criminalità nel nostro Paese, dando prima di tutto qualche indicazione sull'andamento del fenomeno nel suo complesso e cioè prescindendo per un attimo dalla tradizionale distinzione tra crimine organizzato e criminalità comune, per poi indicare alcune emergenze che costituiscono attualmente, a mio parere, non soltanto le più gravi minacce alla comunità nazionale, ma anche argomento di comune interesse in ambiti più ampi.
Spero, cioè, di fornire qualche elemento di riflessione eventualmente utilizzabile anche per individuare nuove linee di interazione tra Servizi di informazione e Forze di Polizia, sulla base degli spunti che vengono dall'esperienza italiana e da quella dei paesi qui rappresentati.
La Comunità internazionale è ormai ampiamente mobilitata, così come è accaduto per il terrorismo, nel ricercare forme sempre più incisive di collaborazione tra Stati nella lotta al crimine organizzato, negli ambiti più diversi: dagli accordi bilaterali, all'ampio consenso delle Nazioni unite e della Comunità Europea in procinto di varare il progetto Europol. Si è partiti, in Europa, qualche anno fa con l'inclusione dell'argomento criminalità nella cooperazione Trevi, nata all'insegna della lotta al terrorismo, per passare, sulla base degli accordi di Maastricht, all'embrione di Europol costituito dalle unità antidroga. C'è stata ora una estensione del mandato di queste unità a nuovi settori dell'illecito (traffici di materiali nucleari e radioattivi, reti di immigrazione clandestina, traffico illecito di autoveicoli, riciclaggio di denaro sporco).
Si va, insomma, rapidamente verso una collaborazione a tutto campo nella lotta al crimine organizzato, nell'assunto che esso costituisce una grave minaccia alla collettività. Così grave, secondo la nostra legislazione, da comportare compromissioni oltre che della "civile convivenza" anche della sicurezza nazionale (di qui la chiamata in campo dei nostri Servizi).
Negli ultimi anni, l'andamento della delittuosità si presenta crescente fino al 1991, per poi mostrare una inversione di tendenza, anche con sensibili diminuzioni. Speculare l'andamento dell'azione di contrasto, contrassegnato da una curva in ascesa di denunce e di arresti.
Se prendiamo in esame il prospetto generale dei dati statistici sulla criminalità nel quinquennio '90-'94, (pag. 104) vediamo, ad esempio, che gli omicidi volontari decrescono progressivamente dai 1.812 del 1991, ai 956 del 1994; gli attentati dinamitardi (da 2.600 a 1.594) e così via per un totale generale dei delitti che nel periodo in esame cala, in percentuale, circa del 18%. Drastico calo anche nei sequestri di persona (dai 12 nel 1991, ai 4 nel 1994, 3 dei quali risolti in breve tempo), fenomeno che persiste ora nella sola Sardegna, ma anche qui come delitto strumentale per intraprendere attraverso le somme ricavate la più lucrosa via dei traffici di droga.
Il numero delle persone denunciate ed arrestate cresce, invece, in percentuale, dal 1990 al 1994 rispettivamente di circa il 46% (denunce) e 87% (arresti).
Pur nella consapevolezza dell'ambiguità delle statistiche e dei numeri, è comunque possibile trarre una conclusione incontrovertibile: a fronte di una aggressione in grande stile della criminalità, l'azione di contrasto è stata così efficace non solo da interrompere un trend della delittuosità in forte ascesa, ma di determinarne una apprezzabile contrazione.
Ben conscio che la situazione rimane sempre su livelli di allarme, cercherò ora di rispondere ad una domanda che mi sembra conseguente: "In quale misura questi successi hanno riguardato la minaccia più grave e cioè quella proveniente dalla criminalità organizzata?".
Bisogna allora ricorrere a parametri più specifici, univoci e fortemente rappresentativi del crimine organizzato. Credo che nulla sia più emblematico della realtà mafiosa, del momento associativo, che in Italia è specificamente perseguito in sé e per sé, appunto come associazione di tipo mafioso (art.416 bis del Codice Penale), dove è contenuta una definizione che vale forse la pena di citare integralmente: "l'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva, per commettere delitti...".
Altrettanto rappresentativa della realtà mafiosa è la sua potenza economica più manifesta e cioè i beni che le cosche possiedono soprattutto nelle regioni di origine, intesi questi come qualsiasi cespiti di ricchezza, ivi compresi le aziende, che costituiscono elementi materiali della struttura organizzativa di un determinato sodalizio mafioso, ancorché non ne sia compiutamente l'origine delittuosa (ometto in questo caso di fare riferimento al quadro normativo, non particolarmente semplice, che inquadra il sequestro di beni nelle misure di prevenzione patrimoniali, con possibilità di ricorrere al sequestro preventivo extra processuale parallelamente al procedimento penale di confisca).
Due parametri di obiettiva valenza sono dunque il numero delle persone detenute per l'art. 416 bis ed i sequestri e le confische di beni.
Ebbene, i detenuti ex articolo 416 bis sono in costante aumento: 2.130 nel 1992, 3.340 nel 1993, 3.997 nel 1994. Per quanto riguarda il sequestro dei beni, si è arrivati, lo scorso anno, al valore di quasi 2.000 miliardi di lire, mentre nel 1995 si sono raggiunti i 1.200 miliardi.
Sintomatico anche un altro dato relativo al mondo carcerario, perché fornisce una indicazione oggettiva di quanti sono i soggetti mafiosi ritenuti particolarmente pericolosi presenti nelle carceri. Si tratta della applicazione di un regime di espiazione differenziato che comporta non solo afflittività nella detenzione, ma, essenzialmente, l'effettiva preclusione al soggetto di avere contatti all'interno del carcere e con il mondo esterno e, quindi, il suo isolamento rispetto alla cosca e la compromissione totale della possibilità di dirigerla ed impartire ordini che pur sarebbe possibile nella posizione di recluso, senza quel particolare regime.
Si tratta di una misura che la mafia avverte come estremamente dannosa per i propri interessi tale da essere stata e da essere, insieme ad altre cause, alla base di progetti di intimidazione delle Istituzioni, considerato che il regime transitorio dell'art. 41-bis è stato prorogato dal governo per altri due anni.
La misura, dal luglio 1992 ad oggi, è stata complessivamente applicata a circa 800 detenuti ed è ora in atto per 466 persone, appartenenti 269 di esse alla mafia siciliana, 87 alla camorra, 79 alla 'ndrangheta, 31 alla mafia pugliese.
Ma un dato ancora, forse più di tutti gli altri, costituisce il segnale più chiaro della efficacia della strada intrapresa sia sotto il profilo generale delle politiche anticrimine, sia sotto quello operativo.
E' il costante espandersi del numero dei cosiddetti "pentiti" o collaboratori di giustizia, che assommano ora a 951, così ripartiti: 302 appartenenti alla mafia, 153 alla camorra, 127 alla 'ndrangheta, 68 alla Sacra Corona e 235 ad altre organizzazioni criminali.
Si potrebbe continuare ancora a elencare cifre e statistiche, ma ne risulterebbe rafforzata la conclusione che già è stata tratta e cioè che la strada intrapresa per contrastare la criminalità organizzata è quella giusta, ma che molto resta ancora da fare, non solo in termini di repressione, ma anche in termini di una più corale azione di bonifica sociale e di risanamento.
Anche in questo caso un esempio emblematico: se si considera il dato degli omicidi volontari delle quattro regioni a rischio, ci si accorge che esso costituisce, nel quinquennio preso in esame ('90-'94), una percentuale rilevantissima del dato nazionale (dal 63 ad oltre il 70%).
E fin qui nulla di particolarmente significativo. A sorprendere è forse il rapporto, nelle regioni a rischio, tra omicidi di contesto mafioso e quelli per così dire ordinari, attestati questi ultimi su percentuali elevatissime che vanno dal 20 ad oltre il 50% dei casi.
Segno evidente del persistere in queste aree di una tradizione di violenza, riconducibile ad una morale "mafiosa" imperante ancora in alcuni strati della collettività, a prescindere dalla effettiva militanza dei singoli nelle cosche, per sconfiggere la quale bisognerà seguitare a lavorare sodo fin dai banchi di scuola.
Molte sono dunque le emergenze connesse a tale situazione, la maggior parte di ordine prevalentemente nazionale quali il racket delle estorsioni, la crescente pressione dell'usura, i perduranti tentativi di condizionamento delle amministrazioni locali, le intimidazioni verso rappresentanti della politica e delle istituzioni, le campagne mafiose, sia cruente sia intossicatorie, per arginare il fenomeno del pentitismo, l'infiltrazione dell'economia sana attraverso il riciclaggio di danaro sporco, le pesanti interferenze sul mondo del lavoro e sui problemi dell'occupazione nelle regioni a rischio. A titolo aneddotico, richiamo a quest'ultimo riguardo una notizia diffusa agli inizi del mese da una agenzia di stampa italiana, secondo cui 600 operai di una miniera di sale in provincia di Enna si sarebbero dichiarati disponibili ad arruolarsi nell'esercito della mafia "dove il lavoro non manca", se nessuno interverrà per riscattarli da quella situazione.
Altre emergenze, di interesse sovranazionale, offrono, ancora di più, quegli spunti di comune riflessione, ai quali ho accennato.
In più sedi viene sottolineata la minaccia derivante dalla espansione delle organizzazioni mafiose italiane in campo internazionale, non soltanto in direzione dei tradizionali settori dei traffici di droga e di armi, del riciclaggio di capitali sempre più ingenti, ma anche, si teme, del traffico di materiale radioattivo e nucleare e del mercato della immigrazione clandestina.
Specie sotto quest'ultimo profilo, l'Italia si trova particolarmente esposta, nel quadro del processo ormai in atto in diversi Paesi della Comunità di abolizione delle frontiere interne dell'Europa in seguito al trattato di Schengen.
Zone non facilmente controllabili della frontiera marittima, specie sulle coste sud-orientali del Paese, vengono prescelte per sbarchi clandestini gestiti, almeno in parte, da organizzazioni criminali fino a qualche tempo fa dedite prevalentemente al contrabbando di tabacchi, spesso in collusione con analoghe bande straniere.
Nord africani, albanesi, cinesi, cittadini della ex Jugoslavia e di alcuni Paesi asiatici vanno quindi ad ingrossare le fila del lavoro nero, della prostituzione, della criminalità diffusa. E' stato giustamente posto in evidenza che le misere condizioni di vita, l'assenza di prospettive di riscatto, le difficoltà di inserimento in tessuti sociali di diverse tradizioni e cultura sono fattori sufficienti a spiegare l'alta percentuale di immigrati coinvolti nel traffico spicciolo di droga, nei furti, nei reati connessi alla prostituzione, nelle risse e nelle altre forme di violenza che arrivano sempre più frequentemente all'omicidio. E tutto ciò, in posizione di inevitabile soggiacenza e di ricatto da parte del crimine organizzato.
Un autorevole giornale francese segnalava, qualche tempo fa, che le organizzazioni dedite all'immigrazione clandestina ed ai traffici di armi potrebbero essere entrate in contatto con le formazioni terroristiche dell'integralismo islamico e, anche se non si sono finora avuti riscontri in questo senso, l'argomento è motivo di forte preoccupazione.
In queste emergenze che travalicano il concetto di difesa della collettività dall'aggressione del crimine e investono aspetti più ampi di sicurezza è urgente trovare forme di interazione tra prevenzione, repressione ed intelligence.